relazioni tossiche

Penso che per parlare di qualcosa, sia sempre utile cercare la sua origine. La parola simbolo deriva dal greco sym-bállō che significa “mettere insieme”: riferimenti, quindi, ad unione e coesione di più parti che vengono messe insieme formando un’entità unica.

Lungo tutta la storia, in effetti, i simboli hanno contrassegnato epoche distinte, poteri, fazioni, movimenti dove le persone si riconoscevano e a cui sentivano di appartenere. Questo chiedeva, però, di aderire a una cultura precisa e di osservarne le regole, esplicite o implicite che fossero, creando un modo unico e peculiare di stare nel mondo. Senso di sicurezza e di contenimento, desiderio di affiliazione e bisogno di attaccamento da un lato, omologazione e limite dall’altro. Se diamo uno sguardo all’oggi possiamo vedere come nuovi simboli tutti gli oggetti, concreti e telematici, a cui ricorriamo spasmodicamente nello scandire le nostre giornate?

Il vestiario che scegliamo e immediatamente condividiamo al mondo sui social, il piatto che prepariamo o acquistiamo e consumiamo filmandone e/o fotografandone il momento, l’auto con cui ci muoviamo che pur di mostrarla vale uno scatto o un video in diretta mentre guidiamo per le strade. Abbiamo sempre studiato l’importanza del simbolo nell’adolescenza come uno strumento a cui ricorrere in un momento di estrema transizione e confusione su chi siamo e che posto abbiamo nel mondo dove ci sentiamo come tanti frammenti scomposti e lontani che non trovano un punto di incontro.

Solo che questa frammentazione è fisiologica, è necessaria perché avvenga una crescita, una definizione di sé, un’autonomia che gradualmente ci farà anche un po’ abbandonare questi simboli più concreti e crearne di nuovi dentro di noi da condividere con gli altri. Forse ora ci sentiamo tutti un po’ frammentati, come se i nostri appetiti e desideri non potessero avvicinarsi ai nostri pensieri, ai nostri progetti di vita e trovare uno spazio per essere condivisi nelle nostre relazioni: corriamo e ci aggrappiamo a simboli che mutano continuamente, simboli estremamente concreti, a caro prezzo e che ci consentono solo una modalità usa e getta.

Riunire le nostre parti facendo spazio alle fragilità e all’ambivalenza è un vero e proprio lavoro che richiede tempo e fatica, ma forse ci consentirebbe di fermarci di più e di comprendere cosa ci succede, specialmente nel periodo storico che stiamo vivendo dove la nostra sicurezza talvolta equivale all’isolamento e all’interruzione del nostro fare.

Dott.ssa Eloisa Cotza