bambini che studiano

Avere alcune difficoltà nel rapporto con i propri figli, per quanto possa mettere a dura prova qualsiasi genitore, non è poi un fenomeno così anomalo; anzi, potremmo dire che fa parte del naturale processo di sviluppo all’interno del sistema familiare, laddove i figli non rappresentano un’emanazione del genitore ma individui a sé stanti, con le loro personalità e le loro peculiarità.
Ma come comportarsi se, invece, le difficoltà si manifestano nell’ambito scolastico?
Vediamo insieme alcuni punti (e spunti) essenziali per affrontare passo per passo una difficoltà scolastica.

1. DSA o difficoltà transitoria?
Il primo dubbio da chiarire è se si tratti di un DSA o di una difficoltà transitoria del ragazzo.
Una difficoltà transitoria a scuola non è così infrequente, soprattutto durante i momenti di crescita o di passaggio da un grado scolastico ad un altro. In questi casi, può essere d’aiuto appoggiarsi a figure di tutoraggio, che possano sostenere il ragazzo nello svolgimento dei compiti e nello studio, aiutandolo ad acquisire un proprio metodo e a comprendere al meglio i temi più complessi.
Ci troviamo invece in una situazione diversa se si sospetta la presenza di DSA, ovvero di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, quali dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia o disturbo della compitazione. La possibile presenza di un DSA viene solitamente segnalata dalla scuola, ma è possibile notare alcune avvisaglie anche a casa, per esempio un’accentuata difficoltà nella lettura, nella comprensione di un testo o nel calcolo. A fronte di questo sospetto, una diagnosi professionale è il primo step da compiere.

2. Quali specialisti?
La diagnosi di DSA può essere effettuata o dall’ASL di riferimento o da professionisti privati purché siano accreditati (art. 3 della Legge 170/2010). Solitamente, le figure professionali coinvolte sono rappresentate da psicologi e neuropsichiatri infantili, e la diagnosi avviene attraverso la somministrazione di alcuni test specifici e colloqui con il minore. Una volta effettuata la diagnosi, questa viene consegnata ai genitori, i quali dovranno a loro volta consegnarla alla scuola.

3. Il ruolo della scuola?
A questo punto, la scuola è tenuta, secondo il Decreto Ministeriale 5669/2011, a redigere un PDP, ovvero un Piano Didattico Personalizzato: si tratta di un documento che include alcune misure compensative e dispensative, finalizzate ad aiutare l’allievo ad apprendere efficacemente e raggiungere gli obiettivi scolastici senza eccessiva difficoltà. Tali misure possono essere, ad esempio, la possibilità di fare ricorso a mappe concettuali durante le verifiche, oppure il diritto ad avere interrogazioni orali programmate. I docenti che hanno firmato il PDP sono quindi altresì tenuti a garantire l’attuazione e la possibilità di utilizzo da parte dell’allievo delle misure ausiliarie indicate.

4. Perchè è importante intervenire?
La fatica pronunciata nel seguire le lezioni, stare al passo con il resto dei compagni e svolgere i compiti a casa, nonché l’arrivo dei primi insuccessi a fronte dell’impegno personale, spesso sono motivo di affossamento dell’autostima e del senso di autoefficacia del ragazzo, che potrebbe sentirsi “meno capace” rispetto a quanto avverte di dover essere.
Questi sentimenti negativi talora si manifestano con un umore depresso e chiusura in sé stessi, ma possono anche sfociare in condotte aggressive, provocatorie e oppositive, dettate in particolar modo dagli alti livelli di frustrazione che il ragazzo sperimenta.
Come genitori, pertanto, è importante supportare pienamente i figli nella gestione di questo genere di difficoltà, non solo dandone una definizione e una cornice di significato chiara in primo luogo per i ragazzi stessi, ma anche e soprattutto comprendendo i loro vissuti e le loro emozioni, facendoli sentire comunque adeguati e aiutandoli a non definire sé stessi unicamente sulla base della dimensione scolastica.
Allo stesso tempo, però, è utile non abbassare eccessivamente le difese, permettendo cioè che i figli si adagino nella loro stessa diagnosi trasformandola in una valida motivazione per non impegnarsi a fondo o per limitarsi a fare il “minimo sindacale”. Anche su un piano di educazione emotiva, è necessario non avvallare le manifestazioni disfunzionali e distruttive della rabbia e della frustrazione dei figli, ma aiutarli piuttosto ad esprimere le loro emozioni negative in maniera sana e costruttiva.
Le figure degli psicologi e degli psicoterapeuti, in tal senso, rappresentano un valido supporto tanto per i ragazzi in difficoltà quanto per i genitori e il sistema familiare.

Dott.ssa Aurora Gelmini psicologa